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Pagina:Sonetti romaneschi VI.djvu/192

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182 Sonetti del 1832

L’OMO DE MONNO.1

     Pe’ cquante case ch’io me sii ggirate,
Fascenno er zervitore, inzino a mmóne,2
Ho vviduto pe’ ttutto le padrone
’Gnisempre o bbuggiarone, o bbuggiarate.

     Le zitelle, o dda poco maritate,
L’ho vvidute oggnisempre bbuggiarone:
Ma ppoi, passato er tempo der cojjone,
L’ho vvidute oggnisempre cojjonate.

     Tu gguarda cqui ar cammino sta spidiera,3
Che ggira e ggira e ffa ssempre un lavoro:
Cusì vva pe’ le donne a una maggnèra.

     Sin che cc’è ggioventù, l’argento e ll’oro
Se lo pijjeno a ppeso de stadera:
Cuanno sò vvecchie poi pagheno lòro.4

Roma, 14 dicembre 1832.

  1. [A illustrazione di questo e di molti altri sonetti, giovenranno quei passi de’ Ricordi del D’Azeglio, da me riportati nella nota 9 del sonetto: L’educanne ecc. 10 genn. 35; e le seguenti parole, che il marchese Crosa, ambasciatore sardo a Roma, scriveva l’8 agosto del 36 al conte Solaro della Margherita, ministro e primo segretario di Stato per gli affari esteri, a Torino: “Tali leggi„ (per il mantenimento del buon costume) “esistono assai dure; ma pur troppo non si osservano che contro i miserabili; e allora si vedono forti esempi di sevizie, mentre poi il libertinaggio più sfrontato passeggia impunemente le vie di questa capitale.„ Bianchi, Op. e vol. cit., pag. 172.]
  2. Mo [con l’aggiunta del ne eufonico]: ora.
  3. Schidione, spiedo a ruote e peso. [Girarrosto.]
  4. Con l’o aperta.