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Pagina:Sonetti romaneschi VI.djvu/219

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Sonetti del 1833 209


LA SERVA E L’ABBATE.

     Cuanno té lo dich’io, credelo cattera!
Le cose che ddich’io so’ ttutte vere.
La serva ch’annò vvia da Mastro Zzattera
4Se fasceva sc...à ddar cancejjere.

     Lei lo fasceva entrà ttutte le sere,
E ssi bbussava lui,1 la sora sguattera,2
Da bbrava p...anella der mestiere,
8L’annisconneva drento in de la mattera.3

     Una sera però cche vvenne er mastro
Co’ la chiave, trovò stesa Luscia
11Cór pittore a ddipìggnela a l’incastro.4

     Sai che jje disse lui? “Ggentaccia indeggna,
La mi’ casa nun è ccancellaria
14Da stipolà strumenti de la fr........„5

Roma, 16 gennaio 1833.


  1. Lui, per antonomasia, “il padrone.„
  2. Guattera.
  3. Madia.
  4. Equivoco di encausto, che dalla plebe dicesi appunto all’incastro.
  5. Fuor di questa circostanza, le tre ultime parole si userebbero in via di ripieno, per modo di cruccio.