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168 sotto il velame

cinta„.1 Dice altrove2 che l’appetito, che concupiscibile e irascibile si chiama, è guidato dalla ragione con freno e con isproni; e il freno si chiama temperanza e lo sprone fortezza. Invero Dante era nel mezzo della vita e nel bel mezzo della gioventù; nella qual gioventù la “nobile„ natura si fa “temperata e forte„. Uscendo dalla selva, da vile era divenuto non vile, cioè nobile. Egli aveva contro la lonza, che è concupiscenza e tristizia, il freno e lo sprone, la temperanza e la fortezza. Dice infatti che bene sperava di lei.

Ma ecco le altre due bestie: il leone e la lupa. Esse sono la violenza e la frode, cioè la malizia. E della malizia ingiuria è il fine. Vale a dire, ella è l’ingiustizia, come la chiama l’autore di Dante. Contro l’ingiustizia che può essere raffigurata dalla sola lupa, perchè questa comprende, se non altro, anche il leone, qual virtù era necessaria? La giustizia.

Dall’ingiustizia Dante è ripinto verso la selva della tenebra e della servitù. Dunque Dante non aveva questa virtù della giustizia, come aveva le altre tre? Egli l’aveva. Egli piange e s’attrista arretrando avanti la lupa, egli domanda aiuto contro lei, egli grida, egli lacrima. Anzi, nel vedere il suo lacrimare, Virgilio gli propone “altro viaggio„.3 Questi sono segni di orrore per la lupa, cioè per l’ingiustizia: dunque, segni della virtù di giustizia.

Ma si dirà: l’essere prima ripinto e poi tanto impedito da essere ucciso dalla bestia che simboleggia l’ingiustizia, significa simbolicamente essere

  1. Inf. XVI 106.
  2. Conv. IV 26.
  3. Inf. I passim.