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344 sotto il velame

sommergere se non con chi lo sommerge„.1 Non c’è un ricordo di questa idea e di questa imagine, combinata con ciò che lì si legge poco prima, che l’ira è secondo Aristotele, sprone della virtù; non c’è un ricordo di queste parole nell’esclamazione di Dante:2

               O cieca cupidigia, o ira folle,
               che sì ci sproni nella vita corta
               e nell’eterna poi sì mal c’immolle?

Seneca descrive gl’irati che hanno il viso quale in nessun’altra passione è peggiore, aspro e fiero, e ora pallido ora sanguigno, con le vene gonfie e gli occhi ora mobili ora fissi. E Dante raccoglie il tutto nelle parole “con sembiante offeso„. E il filosofo continua parlando “dei denti arietati tra loro e bramosi di mangiare qualcuno„, e delle mani che si frangono e del petto che si picchia.3 Certamente ad ognuno viene subito in mente:4

               Questi si percotean non pur con mano,
               ma con la testa e col petto e co’ piedi,
               troncandosi coi denti a brano a brano.

Or a chi s’affrettasse a concludere da certi passi che i fangosi sono dunque rei d’ira, io direi che in Seneca Dante trovava rei d’ira, anche, non solo i bestemmiatori o spregiatori degli Dei, come abbiamo veduto, ma i suicidi (a quanti l’ira nocque da sè. Altri, nel soverchio bollore, ruppero le vene... Non c’è altra via più breve per giungere alla follia...);

  1. Sen. de ira ib. 3, 2.
  2. Inf. XII 49 segg.
  3. De ira III 4, 1 e 2.
  4. Inf. VII 112 segg.