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348 sotto il velame

concetto noto a Dante.1 Sin quì mi pare che nulla osti a credere che i peccati compresi sotto l’esclamazione,

               O cieca cupidigia, o ira folle,

abbiamo come il nome Ciceroniano di violenza e l’altro Aristotelico di bestialità o ferità, così quello tanto volgare quanto teologico di ira. L’ira di Dio è voluntas vindicandi o puniendi, l’ira degli uomini è cupiditas o libido ulciscendi. Quì abbiamo spietati punitori e inordinati vendicatori. Ma ira può dirsi quella dei suicidi e dei dissipatori? Il Dottore dice seguendo Aristotele, che “tutti i motivi d’ira si riducono a disprezzo (parvipensio)„,2 ed è disprezzo, per esempio, l’oblivione ed esultanza negl’infortuni, il contristare alcuno col ricordargli i suoi guai, il mostrar letizia nelle sue disgrazie, l’impedirgli d’ottenere il suo proposito. Il qual disprezzo mostra Virgilio al Minotauro, esattamente, per farlo montare in furia, per mutare l’ira sua da tal che fiacca, in bestiale. Invero gli grida:3

                                           Forse
               tu credi che qui sia il duca d’Atene,
               che su nel mondo la morte ti porse?

C’è in queste parole “l’impedimento di adempiere la sua volontà„. Ah! vorresti vendicarti? Niente: non potrai. E c’è il ricordo dell’infortunio. E Virgilio grida ancora:

  1. Huius iudicium omnem severitatem abhorrens et semper citra medium plectens... Epist. V.
  2. Summa 1a 2ae 47, 2.
  3. Inf. XII 16 segg.