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Essa raccontava appunto di aver pranzato a Treviglio, da una sua amica, e di essere arrivata a Bergamo verso le otto: portava all’ingegnere una lettera di un suo cognato, e molti saluti a tutta la famiglia.

Mario Limonta si teneva in disparte, ma non poteva far a meno di guardarla; e ben presto i loro sguardi s’incontrarono. Allora egli provò lo stesso acuto malessere che aveva provato nel treno: una puntura acerba nella parte più sensibile dell’animo, una follia di collera. Non v’era dubbio: quegli occhi lo disprezzavano. Gli parve anzi che la signora s’indugiasse un momento a guardargli le mani, rivolgendosi poi subito da un’altra parte, come inorridita.

Ciò bastò a guastargli la festa. Non si sentiva più libero, padrone di sè: un insormontabile imbarazzo lo inchiodava al suo posto — e non sapeva dove tener le mani; provava il bisogno strano, stupido, tormentosissimo, di nasconderle a’ suoi propri occhi!