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vitù, in uno stanzino, dicendo che lassù l’aria era più pura, la vista più aperta e ricreante.

La cameriera li accompagnava uno ad uno. Alle quattro e mezzo, finita la siesta, i tre campanelli squillavano uno dopo l’altro, e la cameriera accorreva col caffè; e poi andava a vestirli sempre uno dopo l’altro; poichè, la povertà che già li rodeva, li aveva ridotti a tenere una cameriera sola per tutti e tre, ma non peranco addestrati a vestirsi da sè medesimi.

Per tutte quelle ore ero libera; e, specialmente nelle giornate calde mi piaceva restare in casa, nella sala di tramontana o giù nel vestibolo, in una vecchia carrozza lasciata là in un cantone. Vi si entrava dentro tutti. Vale a dire, io in prima linea con le mie due cuginette, due diavoletti ancora immaturi; poi, Cesare, il biondo figliuolo del primo colono, che la marchesa aveva tenuto a battesimo. Lo tiravano su per domestico; ma lui non c’era tagliato; e alcuni anni dopo — mentre io ero in collegio — scomparve e non se ne seppe più nulla.

Ultimo, Fiume, il vecchio cane da caccia in riposo, che si stendeva ai miei piedi. Natura di martire questo cane. Quanto più lo si tormentava, tanto più si ficcava in mezzo a noi.

E poichè non vedendoci ululava malinconicamente, la servitù, che l’aveva in uggia, lo cacciava via a pedate, gridandogli:

— Va a farti martirizzare, va!...

Cesare e Fiume erano forse le due creature che m’ispiravano maggior simpatia in quella casa; certo erano quelli che mi amavano di più. Io li trovavo sempre pronti a eseguire i miei ordini, a darmi aiuto nelle cento difficoltà che avrei potuto incontrare nelle mie spedizioni.