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i - terze rime 253

     64e con leggiadri e candidi costumi
dilettò ’l mondo in guisa, che la gente
d’amor per lei vien ch’arda e si consumi.
     67Gran pregio, in sé tener unitamente
rara ilei corpo e singoiar beltate
con la virtú perfetta de la mente:
     70di cosí doppio ardor l’alme infiammate
senton lor foco di tal gioia pieno,
che, quanto egli è maggior, piú son beate.
     73Anch’io lo ’ncendio, che mi strugge il seno,
sempre piú bramerei che ’n tale stato
s’augumentasse e non venisse meno,
     76s’io non fossi, né so per qual mio fato,
in mille espresse ed angosciose guise
da iei, miser, fuggito e disprczzato:
     79ché, se ’l trovar l’altrui voglie divise
da le nostre in amor, è di tal doglia,
che restati le virtú del cor conquise.
     82quanto convien ch’io lagrimi e mi doglia
di vedermi aborrir con quello sdegno,
che di speme e di vita in un mi spoglia?
     85E, s’io mi lagno, e se di pianto pregno
porto ’l cor, che ’l duol suo sfoga per gli occhi,
miser qual io d’Amor non ha ’l gran regno.
     88Non basta che Fortuna empia in me scocchi
tanti colpi, ch’altrui mai non aviene
che ’n questa vita un si gran numer tocchi;
     91ché sospirar e pianger mi conviene
di ciò, che la mia donna, fuor d’ogni uso,
al mio strazio piú cruda ognor diviene;
     94e s’io, del pianto il viso smorto infuso,
del cielo e de le stelle mi richiamo,
ed or Amor, or lei gridando accuso,
     97che poss’io far, se, in premio di quant’amo,
giunto da l’altrui orgoglio a tal mi veggo,
che la morte ancor sorda al mio mal chiamo?