Pagina:Steno - La Veste d'Amianto.djvu/207

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Una stella brillò nel cielo diventato di cobalto cupo: anche l’occidente si ingemmava. Gli occhi di Noris vi si affissarono e ne ritrassero una dolcezza che si diffuse in tutto il suo essere.

La pace profonda dell’ora divina influiva sul suo spirito e lo compenetrava.

Adesso, anche l’anima sua rifletteva la serenità purissima del cielo tutto sgombro da vapori e da nubi: come quello di chi crede era il dovere di adorazione che sentiva incombergli per una legge superiore e l’adorazione diventava in lui anche consenso e rassegnazione. Sì, tutto accettava: il martirio dell’attesa e il peso della vita, la malinconia del ricordo e il dovere di operosità.

La morte poteva essergli vicina: fosse la benvenuta! Poteva irridergli e fuggirsene lontana: così accettava.

Eva lo attendeva? Sì, ma il suo viso non aveva più l’ardore tragico della passione disperata: anche su quel viso la rassegnazione aveva imposto la sua forza e la sua pace e il sorriso che rivolgeva a Noris era, in questo momento, sopratutto di dolcezza e di malinconia.

Il sorriso della stella, lassù.

Era Eva o Susanna che gli sorrideva da quella stella?

Un istante, Noris ebbe davvero l’impressione d’una vicinanza soprasensibile che si traducesse per lui in assistenza e in affettuosa protezione. Non respinse la convinzione che da quella impressione gli veniva. Troppo piena di nostalgie di spiritualità era la sua anima perchè gli ripugnasse ammettere l’esistenza del soprannaturale e l’ora che egli attraversava era fatta per parlare di Dio anche al più ottuso fra gli uomini.

Sempre Dio si avvicina man mano che l’uomo si allontana dagli uomini. Ettore Noris era lontano non solo dagli uomini ma anche dalla terra e dalla vita e le sole cose che lo circondavano — il cielo, l’oceano, lo spazio, l’inviolata