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Nello stesso istante, accolto da un applauso formidabile, riappariva all’orizzonte, alto al disopra della collina, magnifico di bellezza, di sicurezza, d’audacia, di trionfo, l’aereoplano di Ettore Noris.
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Egli seppe solo quando, strappatosi alle congratulazioni degli accorsi, sottrattosi alle insistenti domande dei giornalisti, si rivolse a cercare la dilettissima collo sguardo e non la trovò più e vide invece, nel punto dove ella doveva trovarsi, un gruppo di guardie in un grande spazio vuoto. E fu subito fuori, senza interrogare, corrusco in viso come la sua disperata ansia fosse sdegno, torvo di minaccia per non apparire spezzato dall’angoscia.
Avevano pietosamente coperto la morta con una bandiera tolta a uno dei pennoni di festa.
Senza un grido, ma con un impeto di belva, Noris si slanciò, strappò la bandiera, vide.... E allora l’urlo uscì, disperato, formidabile inutilmente imprecante al destino, inutilmente implorante la morta.
Come un pazzo egli si gettò sul cadavere, lo sollevò in un abbraccio appassionato, lo strinse sul proprio cuore come a ridargli la vita, lo chiuse fra le sue salde braccia come a rapirlo alla morte, chiamandolo disperato, incapace di credere che la diletta potesse una volta restar sorda alla sua voce.
— Eva! Eva! Eva!
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Un’ora dopo, la povera piccola morta giaceva sopra un tavolo dell’hangar, composta nel suo semplice vestito bianco, protetta da una delle ali dell’aereoplano distesa al disopra di lei.
L’hangar era stato chiuso con una gran tenda bianca improvvisata. Fuori facevano scolta d’onore alla morta i meccanici di Noris, quelli di Lorenzo Rolla, due piccoli reporters, due agenti....
Dentro l’hangar, Ettore Noris era solo colla sua morta.