Pagina:Steno - La Veste d'Amianto.djvu/257

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terra e fra ventiquattr’ore sarebbe stato in vista di Napoli. L’ultima sera della sua permanenza a bordo, la Fabbri avvicinò sul ponte, per la prima volta, da sola a solo, lo sconosciuto che s’era fatto suo paladino contro le insinuazioni di gente che la ignorava.

— Scusate, — gli disse accostandosi e stendendogli la mano, — io non so se domattina ci rivedremo e voglio ringraziarvi, prima di scendere, per le parole buone che avete avute per me.

— Io? per voi? — fece lo sconosciuto con evidente stupore.

— Sì. Mi avete difesa senza conoscermi. Debbo esservene tanto più grata. Io sono Pallade Atena.

Un’esclamazione di sorpresa lieta rispose alla presentazione.

— Ma perchè me lo avete detto oggi soltanto? Sarei stato così felice di passare qualche ora con voi. Io sono Pearly, l’ingegnere Pearly. Non vi dice nulla questo nome?

— Pearly? Ma sicuro: fino ad oggi Noris aveva sempre volato coi vostri motori. Kindler-Pearly, vero?

— Precisamente.

— Ora capisco come voi conosciate perfettamente Noris. Eravate laggiù a New-York?

— No, — disse Pearly con improvvisa malinconia, — ero a Donver e soltanto ieri l’altro sono arrivato a New-York, ma non ho voluto vedere Noris. Mi ricordava troppe cose tristi....

— Noris? — domandò sorpresa la fanciulla.

— Sì. Non vi ha parlato mai, Noris, di Susanna Pearly?

— No, — disse Minerva sentendosi diventar bianca per la commozione, — no.

Ma dentro, ormai, la voce del suo amore geloso e vigile le diceva:

— È quella, è quella! È colei che è morta per lui e che ignorandola tu hai esaltata!

Disse, il vecchio signore:

— Era mia figlia. Aveva ventidue anni ed è morta. Fra le braccia di Noris è morta e non