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12 sugli accènti tònici

Le vocali e, o, non accentate, si pronunzino sèmpre strette. Nella rètta pronúnzia toscana, non può mai èsser larga una vocale che non sia in sède tònica. Così p. es. l’ò di gòdo che è largo, divènta stretto in godiamo, godete, godere, ecc.; cosí l’e larga di lèvo divènta stretta in leviamo, levate, ecc.

Le paròle italiane possono avere il tòno, e per conseguenza l’accento, sull’última vocale, o sulla penúltima, o sulla terzúltima; e molto raramente sulla quartúltima. Le prime si dícono tronche; le seconde piane; le altre sdrúcciole. Non tutte peraltro le paròle tronche hanno l’accènto sull’ultima síllaba. Se prima èrano sdrúcciole, troncate divèntano piane: p. es. creder, èsser, piantan, divèntan, ecc.

In questo libro non si mette accento sulla vocale tonica delle paròle piane, salvoché quella vocale sia è, ò, larga, ovvero quando il tòno pòsi sulle desinènze ía, íe, ío, íi.

Fuori del caso di è ò da pronunziarsi larghe, in questo libro si adòpera sèmpre l’accènto acuto.

Gli articoli e le preposizioni monosíllabe sono átoni per natura o proclítici per posizione: però non portano accènto. In essi l’e e l’o sono dunque sèmpre di pronunzia stretta. Sugli altri monosíllabi troverete l’accènto, se bisogna; ma, eccetto l’articolo lo e la tronca mo, i monosíllabi in o sono sèmpre larghi, ancorché non vi pòsi il tòno; come appunto avviène in ho vèrbo ausiliário, che diventa proclítico sul participio a cui si congiunge.

Nelle sillabe cia, cio, ciu, gia, gio, giu, scia, scio, sciu, glia, glie, glio, gliu, l’i non è più una vocale ma un segno complementare, e non ha suòno pròprio. Se l’alfabèto non fosse imperfètto, vi sarèbbe un segno per ciascun suèno e per ciascuna modificazione di suèno; e allora, senza bisogno di scriver cia, cio, gia, gio, ecc., si distinguerèbbe il suono schiacciato (dentale-linguale) del c e del g da quello aspro (gutturale). Cosí senza bisogno di scrivere glia, glie, ecc., si indicherèbbe con un segno pròprio quel suòno linguale-palatale che i Francesi dicono mouillée rappreséntano anch’essi alla mèglio.

Ma a questi ed altri difetti dell’alfabèto, tentár rimèdio è vano.

Dunque basterá ricordarsi che nelle paròle finite in cia, cio, gia, gio, giu, scia, scio, glia, glie, glio, quando le dette lèttere finali fanno tutt’una sillaba, non può cadere accènto sul-