o in fondo ad una gora, o a mezz’aria, tra due precipizî; uno
che si leva alle stelle, l’altro che si sprofonda negli abissi, si
sente compreso di quell’orrido sublime per cui ti danno le Alpi
così intenso diletto. Se vuole i larghi orizzonti, se vuol dominare
le cime che nuotano come i marosi nel cielo, gli bisogna affaticare
l’anelito sulle vette arditissime tra le più ardite. Nell’Apennino
tutto l’opposto: le valli sono deserte, in balia dei torrenti che
le rodono; i fianchi dei monti son tutti in isfacimento: sui terreni
che smottano un sentiero non ci si regge, e un’orma appena
impressa si cancella. Le smotte del terreno si temono dai
contadini nell’Apennino, come da quelli delle nostre Prealpi le
grandini. Case, con pezzi di terreno coperti di alberi, sdrucciolano
talora dai fianchi dei colli, fino al fondo delle valli, senza scomporsi.
Perciò i villaggi coronano le alture, e si guardano dalle
opposte vette: d’altura in altura corrono le strade e i viottoli,
che talora si svolgono come un nastro ondeggiante, quasi segnando
il filo di una gran lama guasta dal tempo. Il viaggiatore
domina sempre i luoghi bassi. Oh come fu deliziosa quella gita
lungo l’angusto sentiero che scorreva di vetta in vetta, di pendio
in pendio, sempre sul filo dello spartiacque! Alla destra il Ceno,
che si sforza per giri e rigiri di raggiungere il Taro: alla sinistra
il Parola, il Camparola, il Dordone e altri minori torrenti, erranti
per entro a un labirinto di colline, talora coperte di verdura,
talora rase così che non vi scorgi un filo d’erba, talora giardini,
talora deserti di ceneri. Ma lo sguardo sorvola quelle alture, e
si posa sull’immensa pianura, ove si distendono i pingui colti,
ove biancheggiano, come lini distesi al sole, tanti villaggi, tante
città, e giù giù fino al Po, accennato da una striscia nebbiosa
nel lontano orizzonte, e ancora giù giù fino al mare, se la vista
fosse men corta. Anche l’Apennino è bello, co’ suoi boschi di castagni,
colle sue rupi di serpentino, così brulle, nere, irte, adocchiate
un giorno bramosamente dai tirannelli che vi piantarono
i loro covi. Ora le rupi e i castelli non servono che a rompere
la monotonia di un paesaggio, che per poco non ci diventa troppo
uniforme e monotono. Ma voi volete trovarvi finalmente a vedere
quei pozzi di petrolio, di cui promisi parlarvi, quasi fossero
una novità, anche dopo aver veduti quelli di Salsomaggiore. Vi
ha molti di tali pozzi petroleiferi sopra una cert’area attraversata
dall’immenso letto del Taro; ma una novità veramente
non sono, nè io vorrei parlarvene, se non avessi avuto la fortuna
di vedere come si scavano; se pure è fortuna il vedere ciò
che, appena a pensarci, mi fa raccapriccio».