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feci un batuffolo, e datogli fuoco, lo gettai così acceso in mezzo allo stagno ribollente. Il suo arrivo fu salutato da ripetute salve di spari e di vampe scoppianti dalle viscere stesse dell’immondo stagno.

10. » Ma non ho finito; non abbiamo ancora fatto di cappello al gigante di quei pigmei, che superbo di sua statura, appartato nell’angolo più settentrionale, stassene ritto e torreggiante, quasi capitano intento a dirigere le mosse di quella doppia squadra di vulcanelli. Le talpe non hanno mai levate così alto le loro pretensioni. Difatti quel cono, che noi chiameremo cono maestro, è quanto di più ardito mi hanno finora offerto le salse d’Italia. Non raggiunge per verità l’altezza di 7 metri, assegnata da Humboldt alle classiche salse di Turbaco; ma non ne dista poi di troppo. Partendo dalla base, cioè dalla periferia della larga espansione, per cui il cono si confonde col piano, credo che bisognerà salire 5 metri, o giù di lì, per raggiungere il vertice. Pei primi due metri però il cono sale insensibilmente, e mal si distingue dalle irregolarità del piano: più in su tuttavia si raccoglie in sè stesso, si spicca isolato, e restringendosi rapidamente, si slancia ardito, come una punta. Ma la punta è tronca, e ci vaneggia un piccolo cratere o laghetto, da cui le bolle gasose si svolgono con foga incessante, e con tal impeto talora, che la fragile mole del cono è scossa da tremiti convulsi. Ogni scoppiar di bolla è uno sgorgo di fango, che diviso in cento ruscelli, giù giù discende, ingruma i fianchi del cono, e ne inonda la base. Così trovai la salsa di Nirano nel 1864, quando la visitai nell’autunno, che fu molto piovoso. La melma, che riboccava da tanti crateri bollenti, formava dei rigagni ben nudriti, quasi altrettanti affluenti, che andavano a gettarsi entro una doccia. Questa passando dietro il cono maestro e lambendo il circo all’ingiro, veniva a congiungersi al rivo di mezzo, il quale, come vi ho detto, attraversa tutto il piano della salsa. Quella doccia, larga circa un metro, e considerevolmente profonda, era occupata da un vero fiume di fango, viscido, spesso, che scorreva con lentezza inapprezzabile, ribollendo lentamente e scoppiettando, come una massa di pasta in fermentazione, per lo sprigionarsi del gas rimasto impigliato nel fango al momento della eruzione. Quel fango naturalmente guadagnava l’apertura del circo, e giù giù colava per la china del monte, finchè non avesse trovato, a qualche centinajo di metri più basso la via di gettarsi nello Spezzano. Quando vi tornai nell’estate del 1865, con quel caldo ostinato, implaca-