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CAPO I. 17

scritta, celebrano a gara le lodi dell’Italia, e la grande abbondanza delle sue proprie naturali ricchezze: sì che, a dir di loro, quivi aveansi largamente tutte le cose, che servir possono al bisogno ed a’ comodi della vita, senza aver ricorso a beni stranieri. Il più utile e salutare nutrimento dell’uomo era tenuto per un dono spontaneo del clima italiano o siciliano1 : tradizione non pure ammessa dal primo pittor delle memorie antiche2, ma consacrata sotto il misterioso mito di Cerere3: favola antichissima, la qual non dubbiamente discende dalle primitive religioni di numi campestri.

Or questa fertilità e copia di beni, perpetuo dono del cielo, fu mezzo potentissimo a moltiplicare le razze indigene, ed a facilitar loro le vie di conseguire i vantaggi della vita civile. L’origine d’un primitivo popolo italiano si confuse di buon’ora colle favole. Da ciò i poeti e mitologi, primi storici, presero motivo di fingere la stirpe umana quivi dalla terra ingenerata4: opinione certamente repugnante alla buona fisica, ma che, sotto il velo dell’allegoria, celava il concetto della impenetrabile antichità del po-

  1. Diodor. v. 2; Auctor. de Mirab, pag. 1157, ed. Duval.
  2. Odyss. ix, 109 seqq.
  3. Cicer. in Verr. iv. 48; Diodor. v. 4; Arnob. i. pag. 20. Da ciò i Sabini nella loro lingua: Cererem panem appellant. Serv. Georg. i. 7.
  4. Dionys. i. 36