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LIBRO SECONDO — 1776-83. 107

sdegnando il dire comune e semplice de ragionamenti, presero lo stile dell’autorità e del comando; la quale superbia velando la ignoranza di alcuni giudici, l’arbitrio altri, grata quindi a tutti, fece che le sentenze altro non fossero che intimate dichiarazioni di volontà e d’imperio. E poichè ad uomini avviliti nella servitù più costa il pensiero che l’obbedienza, il popolo restò cheto sino a quando dal miglior governo de’ due Borboni e dall’avanzato universale ingegno dirozzate le menti, mal soffriva que’ giudizii; dicendo che mascheravano con la brevità del comando, le ingiustizie, la venalità, le ambizioni de’ giudici. Nuova legge venne a quietare le sollecitudini del popolo; prescrivendo a’ magistrati, ragionassero le sentenze, dimandassero al re nuova legge se mancava nei codici, o il vero senso di alcun’altra, se dubbio. E allora i magistrati del regno ammutinarono, dicendo offesa la dignità, la indipendenza de’ giudici: opporsi, disobbedire, rassegnare gli officii, furono i primi tumultuosi consigli; ma dipoi sperando che i richiami e le brighe bastassero a rivocare la ingrata legge, riserbando per la estremità de casi gli estremi partiti, attesero a far chiare le loro ragioni. L’immenso numero de’ curiali, per ignoranza o adulazione o amore alle discordie, accompagnava e accresceva il grido de’ giudici.

Il supremo consiglio, primo de’ magistrati, era ordinato in quattro sezioni chiamate Ruote; e quando mai, per gravezza o dubbietà di alcuna lite, tutte in una si raccoglievano, tanta sapienza era creduta in quel consesso che i suoi giudizii avevano forza di legge. E nel caso presente il consiglio, nelle quattro ruote congregato, espose al principe gli errori e i danni del nuovo statuto, con audace ragionamento; e pubblicò lo scritto. Gli uomini più dotti sostenevano la sapienza del decreto; ed allora Gaetano Filangieri, della età che non compiva ventidue anni, venne la prima volta al cospetto del pubblico per un’opera che intitolò: Riffessioni politiche su la legge del 23 di settembre del 1774, e dimostrò che la libertà dei cittadini e la sovranità dell’imperio consistendo nella piena esecuzione delle leggi, l’arbitrio dei magistrati era tirannide sopra il popolo, ribellione al sovrano; piacque lo scritto e presagì la futura gloria del giovine. Il re con editto rispondendo al consiglio dichiarò: Essere decoro del magistrato la certezza della giustizia, e non, come pretenderebbe il supremo consiglio, il velo degli oracoli; spettare alla sovranità far nuove leggi, o chiarire i sensi oscuri delle antiche; spettare a’ giudici eseguirle; i responsi de’ dottori e gli articoli del commentatori essere studii a’ giudici, non leggi, stando le leggi nelle prammatiche.

Quindi l’editto rigettava le eccezioni proposte, biasimava i ritardi all’adempimento del decreto, è chiudeva il dire come appresso: «il re perdona nella umana fragilità e nelle assuefazioni del supre-