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266 LIBRO QUINTO — 1799.

Quindi Pasquale Battistessa, gentiluomo e padre di molti figli, onesto e non caldissimo seguace di libertà, sospeso alla forva e creduto morto del capestro, si scoprì ancora vivente scendendo alla sepoltura; e fu dal boja, per comando dell’empio Speciale , scannato in chiesa di coltello, e gettato nella fossa.

L’ammiraglio Caracciolo, preso per tradimento di un servo da remoto asilo, fu chiesto da Nelson al cardinal Ruffo, e credevasi per salvare un prode tante volte compagno a’ pericoli della guerra e del mare; sì che rammentando il rancore che le arti marinesche del Caracciolo avevano talvolta concitato nell’altro, si laudava la magnanimità del vincitore. Ma questi, che sua mala fortuna e cieco amore avevano destinato alle vergogne, volle in mano il rivale per saziarsene di vendetta. E quindi al giorno stesso e sul proprio vascello adunò corte marziale di uffiziali napoletani, e ne fece capo il conte di Thurn, perchè primo in grado. La qual corte, udite le accuse, quindi l’accusato (in discorso, però che il processo scritto mancava), credè giusta la inchiesta di esaminare i documenti e i testimonii della innocenza; di che avvisato lord Nelson scrisse: «Non essere necessarie altre dimore.» E allora quel senato di schiavi condannò l’infelice Caracciolo a perpetua prigionia; ma Nelson, saputa dal presidente Thurn la sentenza, replicò «La morte.» E morte fu scritto dove leggevasi prigionia. Si sciolse l’infame concilio alle due ore dopo il mezzodi; e nel punto stesso Francesco Caracciolo, principe napoletano, ammiraglio di armata, dotto in arte, felice in guerra, chiaro per acquistate glorie, meritevole per servigi di sette lustri alla patria ed al re, cittadino egregio e modesto, tradito dal servo nelle domestiche pareti, tradito dal compagno d’armi lord Nelson, tradito dagli uffiziali, suoi giudici, che tante volle aveva in guerra onorati, cinto di catene, menato su la fregata napoletana la Minerva (rinomata ancor essa tra i navilii per le felici battaglie di lui), appiccato ad un’antenna come pubblico malfattore, spirò la vita; e restò esposto, per chi a ludibrio, per chi a pietà, sino alla notte; quando, legando al cadavere un peso a’ piedi, fu gettato nel mare.

Per il quale esempio di crudeltà infierendo i malvagi della plebe, apportarono altre morti e rovine: nulla restava di sicuro o di sacro; la vecchiezza, la tenera età, il debol sesso, i tempii, gli altari non riparavano dalla sete del sangue e delle prede. Sola speranza ponevasi nello arrivo del re, promesso da’ suoi ministri; e difatti nel giorno 30 di giugno, al comparire delle attese vele, si spiegò allegrezza nella città. Il vascello regale, però che il re volle restar su l’acque, vedevasi accerchiato di barche portanti i ministri, gli ambiziosi, i solleciti di mercedi e di cariche; e pure, fra tanti felici ed allegri, qualche famiglia onesta ed abbrunata, supplichevole per