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140 LIBRO SETTIMO — 1815.

doveva scemare L’esercito nè con le entrate pubbliche di Napoli si poteva mantenerlo; o dunque abbisognavano nuove taglie, o farlo vivere sopra altre terre ed altre genti. Poi ragionando della politica europea rappresentava i pericoli della civiltà, non solo temuti ma sperimentati, e rassegnava in argomento tutti gli stati d’Italia; il retrocedere del Piemonte, la ingannata e oppressa repubblica genovese, il regno italico disciolto, i Lombardi abbiettati, tutta l’antica Romagna minacciata della barbarie papale, ed in Roma la tortura rialzata. Si poteva confederarsi a’ nemici di Bonaparte, sospirando ei diceva, quando accertavano voler la Francia frenata non oppressa, e le sorti de’ popoli migliorate, e gli antichi re ammansiti, e non perduto il frutto de’ travagli di trent’anni, e de’ pensieri di due secoli; ma che oggi, vista scopertamente la politica del congresso, il combattere per quelle parti saria misfatto di offesa civiltà.

Eppure tante ragioni e speranze non lusingavano il consiglio, il quale componendosi di Napoletani e Francesi, vedendo nella guerra pericoli per la Francia, pericoli maggiori per Napoli, ed in Gioacchino passione più che senno ed ambizione, non politica di re italiano, concluse: che si attendessero le risposte da Vienna e Londra alle lettere del 5, si scoprissero dell’Austria (or che il tempo e gli avvenimenti la stringevano) le vere intenzioni sul trono di Napoli; si aspettasse la fine della impresa di Bonaparte; e la decisione del congresso europeo su le cose di Francia. A questo, il consiglio si sciolse; ma nel re non scemò il proponimento di guerra; gli apparecchi incalzavano, le nuove leggi riformatrici del regno cadevano, la speranza di costituzione mancava, tutti gli attesi benefizii pubblici erano spenti o allentati, ed un gran pericolo soprastava. Manifestato il pensiero del re, le opposizioni furono maggiori, pubbliche, vane; già i destini di Murat si compivano: a’ dì 15 marzo 1815 palesò la guerra.

LXXVII. La idea che oggi dicono piano di guerra, tenuta occulta da Gioacchino, si mostrò combattendo. L’esercito destinato all’impresa, benchè per grido di cinquantaduemila soldati, era nel fatto di trentacinquemila, e cinquemila cavalli e sessanta cannoni. Si esagerava il vero per gli usati inganni, e per rassicurare i popoli d’Italia che si speravano partigiani. Nè maggiore poter essere, perchè abbisognavano molte schiere nel regno a difenderlo da’ temuti assalti e maneggi del re di Sicilia; e perchè la milizia napoletana non era veramente così poderosa come Gioacchino affermava, nè tutta buona alla guerra. Il quale esercito attivo era diviso in due parti, guardia e linea; quella componendosi di due legioni, una di fanti, altra di cavalieri (seimila soldati); questa di quattro legioni, una di cavalieri, tre di fanti (ventinovemila combattenti): coman-