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186 LIBRO OTTAVO — 1815.

chiamano miei giudici, sono miei carnefici. Non parlerete in mia difesa, io ve lo vieto.

Dolente partivasi il difensore, entrò il giudice compilatore del processo, e gli chiedea, come è costume del nome; ed altro dir volea, ma il prigioniero troncò il molesto discorso con dirgli: «Io sono Gioacchino Murat re delle due Sicilie e vostro; partite, sgombrate di voi la mia prigione.» Rimasto solo, chinò a terra il capo, incrociate al petto le braccia, gli occhi affissati sopra i ritratti della famiglia; al sospirar frequente, alla profonda mestizia palesava che asprissimo pensiero gli premeva il cuore. Trovandolo in quell’atto il capitano Stratti, suo benevolo custode, non osava parlargli; ma Gioacchino gli disse: «Nel Pizzo è gioja la mia sventura (il suppose o il sapeva). E che ho fatto io a Napoletani per avergli a nemici? Ho speso a loro pro tutto il frutto di lunghe fatiche e di guerra, e lascio la mia famiglia. Quanto è di libero nei codici, è opera mia. Io diedi fama all’esercito, grado alla nazione fra le più potenti d’Europa. Io per amor di voi dimenticai ogni altro affetto; fui ingrato a’ Francesi che mi avevano guidato sul trono, donde io scendo senza tema o rimorso. Alla tragedia del duca di Enghien, che il re Ferdinando oggi vendica con altra tragedia, io non presi parte, e lo giuro a quel Dio che in breve mi terrà nel suo cospetto». Tacque per alcuni istanti, e dipoi: «Capitano Stratti, sento bisogno di esser solo. Io vi rendo grazie dell’amore mostratomi nella sventura, nè in altro modo posso provarvi la mia riconoscenza a che confessandola. Siate felice.» Così Gioacchino, e lo Stratti ubbidiente il lasciava, ma piangendo.

Indi a poco, non ancora palese la condanna, entrò il prete Masdea, e disse: «Sire, è questa la seconda volta che io le parlo. Quando V. M. venne al Pizzo, sono cinque anni, io le dimandai un soccorso per compiere le fabbriche della nostra chiesa, ed ella il concesse più largo delle speranze. Non dunque sfortunata è la mia voce appo lei, ed oggi ho fede che ascolterà le mie preghiere, solamente rivolte al riposo eterno dell’anima.» Compiè Gioacchino gli atti di cristiano con filosofica rassegnazione, ed a dimanda del Masdea scrisse in idioma francese: «Dichiaro di morire da buon cristiano. G. M.».

XVI. Opere così pietose si praticavano in una camera del castello; ma spietatissime in altra, dove il tribunale militare profferiva: Che Gioacchino Murat, tornato per la sorte delle armi privato tale nacque, venne a temeraria impresa con ventotto compagni, confidando non già nella guerra, ma nei tumulti; che spinse il popolo a ribellarsi, che offese la legittima sovranità, che tentò lo sconvolgimento del Regno e della Italia, e che perciò, nemico pubblico, era