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190 LIBRO OTTAVO — 1816.

In meno di due ore quel nobile albergo delle arti fu incenerito, e si conobbe il fallo (nè perciò corretto) di aver disciolte per finanziera avarizia le compagnie de’ pompieri, guardie del fuoco.

Al dì vegnente entrammo nell’arso edifizio, e n’era l’aspetto come delle antiche rovine di Roma o Pesto; se non che le presenti, per la fresca memoria de’ superbi dipinti del Nicolini e delle armonie del Rossini, ci apparivano più gravi e più triste. Si trovarono calcinati marmi e graniti, fuso il vetro e i metalli. Volle il re che in breve tempo fosse rifatto, e sorgendo al quarto mese più bello dell’antico, lasciò incerto qual de’ due re dovesse averne maggior lode, il padre o il figlio.

XXI. Nell’anno istesso magrezza di ricolto fu a’ poveri cagion di fame, costando il grano ducati venti al cantajo. Il governo impedì l’uscita delle granaglie, sminuì, poi tolse ogni dazio all’entrata, e infine la invitò con ricchi premii; de’ quali godendo, come vuol ragione, i venditori non i consumatori del genere premiato, si accrebbe la fortuna de’ commercianti, ma niun sollievo si arrecò a’ poveri. Il monopolio aggravò la penuria; il governo non seppe disnodarlo; e le gravi somme che profuse andarono contro i suoi disegni o a vuoto. Durata due anni la fame, sparita al terzo per copiosi ricolti, molto vecchio grano era ancora in serbo; parecchi negozianti fallirono; l’avidità fu punita. Compagne della fame furono le febbri, che, apprese alle prigioni e avventatesi al popolo, divennero mortali e contagiose. La plebe sempre menata da ignoranza e superstizioni credeva quella peste, quel foco, la penuria, la febbre segni di collera divina, e castigo a’ peccati del Pizzo, sì che al governo derivava odio non giusto ma vero.

In quel tempo il re sciolse un voto. Udendo, quando egli era fuggitivo in Sicilia, che in Napoli per ingrandire il foro del regal palagio e far loco ad un Panteon si demoliva la chiesa di San Francesco da Paola, egli fece voto di rialzarla più decorosa se a Dio piacesse di ricondurlo sul perduto trono. Esaudito nel 1815, decretò riedificarsi quel tempio, chiamando a gara d’ingegno gli architetti d’Italia; e prescelto il disegno dei Napoletani Fazio e Peruta, gli autori ne attendevano il promesso premio e la sperata gloria, quando fu commessa l’opera ad altro architetto, Bianchi di Lugano, ignoto ai concorrenti ed alla fama. Fu posta la prima pietra il 17 giugno dell’anno 1816 dal re medesimo, con pubblica e sacra cerimonia; e quindi proseguendo il lavoro, furono adoperati i migliori ingegni napoletani nella scultura e pittura; e il Landi e il Camuccini, che hanno fama in Italia ed oltr’Alpi, dipinsero due tele di evangelica istoria. Non è finito il tempio ora che io scrivo.

XXII. La polizia restò per molti mesi discreta ed inosservata nelle mani del cavalier Medici, però che le massime benigne del