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LIBRO DECIMO — 1821. 303


E tra casi tanto miserevoli ed orribili moltiplicavano le condanne delle corti marziali e de’ magistrati. Il giovine Mormile, non preparato al delitto, reo per impeto di un istante, privo di asilo, vagando nelle campagne intorno alla città, fu preso, e al terzo dì nella piazza medesima dove egli avea consolato il suo sdegno, fu spento. Gli assalitori di Laurenzana e Calvello, sopraffatti dal numero delle milizie, alcuni traditori, tutti traditi, presi e giudicati, furono al numero di sessanta dannati a morte, e primo a morire fu il frate da Calvello. Fu morto combattendo il capitano Corrado; si salvò fuggendo il maggiore Poerio; fu chiuso in carcere il colonnello Valiante. I tumultuosi di Palermo furono giudicati, quarantatrè puniti, e nove colla morte. Per altro giudizio morirono diciassette in Messina e trentotto condannati a’ ferri. Altri dodici morirono in Lanciano. Avanzava il processo di Monteforte: altri processi per le rivoluzioni dell’anno 20 si spedivano. Il giudizio per la uccisione di Giampietro, narrata nel nono libro di queste istorie, terminò colla condanna di tre alla morte, diciassette a pena di galea e di ergastolo. Si provò il delitto concertato in adunanza di carboneria, e commesso ad alcuni settarii scelti o sortiti, usando nelle atrocità eleggere ministri non conosciuti dal proscritto per abituarli a qualunque obbedienza e sperdere gl indizii del misfatto. Furono perciò esecutori contro il Giampietro uomini della plebe, e motivo all’odio della setta l’esser egli stato, da direttore di polizia, cieco ed acerbo punitore dei settarii. Ottocento almeno condannati, o nelle civili discordie combattendo, furono morti nell’anno 1822 per causa di libertà disperata, illegittima e infame. E non un solo fra tante genti volle combattere un anno innanzi, in guerra ordinata e gloriosa. E tanti supplizii si tolleravano animosamente da quegli uomini stessi che pel campo furono timidi e molli: perciocchè il morir fortemente per tirannide è misera virtù de’ Napoletani, acquistata dal troppo uso di quella morte e dal sentire laudati que’ martirii.

Ne’ quali riferiti fatti e giudizii erano accusatori, testimonii, giudici, persecutori in secreto, assalitori armati de’ liberali, altri, poc’innanzi, liberali anch’essi e compagni nella setta e nelle opere; mutati, non per ravvedimento, ma per desio di salvezza, o ambizione, o guadagno. Il dotto canonico Arcucci, caldo scrittore a pro di carboneria quando ella era felice, ora da fuggiasco scrive in istampa lettere latine al pontefice, altre volgari al re; dimostrando sè iniquo, malvagia la setta poco fa santificata, implorando perdono: e l’ottiene. Altri rivela i nomi de’ compagni settarii; altri si gloria de’ suoi mancamenti al giurato governo costituzionale; vanto, fosse vero o falso, sempre infame. Tal debb’essere il popolo napoletano dopo i tollerati per 30 anni sconvolgimenti politici, e tirannico impero, e leggi ingiuste: e tale egli è per suo infortunio e d’Italia.