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92 LIBRO SETTIMO — 1811.


Altra cagione di male era nella natura delle intendenze. L’intendente commissario del governo e tutore del popolo, con poteri grandi e certi, doveri indeterminati e talvolta opposti, non può a lungo serbare uffizio e fama. E poichè l’uffizio gli apporta comodo e fortuna, la fama sventure ed offese per fin da coloro a cui giova, la più parte degl’intendenti sono a pro del governo contro del popolo, cioè duri nelle pratiche di polizia, inflessibili nelle esigenze della finanza, proclivi e pronti a tutto ciò che profitti o piaccia al re come che a danno della provincia. Parecchi ne furono, nel tempo del quale scrivo, difensori arditi delle ragioni del popolo, dei quali citerei e fatti e nomi, se scrivessi commentarii e non istorie.

Nuovi provvedimenti migliorarono il sistema giudiziario, il qual cenno mi offre occasione di rammentare due cause trattate in quell’anno 1811, e degne di storia. Abbattuta ma non ancora impotente l’ira contro Gioacchino, fece ordire congiura per ucciderlo quando andasse a diporto di caccia nelle foreste di Mondragone, dove il luogo vicino al mare agevolasse a’ regicidi la fuga; capo de’ congiurati un tal frà Giusto, già frate, amministratore di vaste tenute presso al disegnato luogo del delitto, compagni altri ventotto venuti di Sicilia o arruolati in Napoli. Si ordinavano le insidie, quando l’un d’essi, a patto d’impunità, rivelò al governo il disegno; e quindi arrestati i congiurati, sorprese armi e fogli, fu comandato il giudizio, ma con le libere consuete forme, come non fosse causa di maestà. Per testimonii, documenti e confessioni venne in pubblico dibattimento dimostrata la colpa, ed il regio procuratore chiese condanna di morte per sette de’ congiurati, e di galera in vita per altri ventuno. Parlavano a difesa, con poca speranza, gli avvocati, quando il presidente ruppe il discorso per leggere al pubblico un foglio or ora pervenutogli, ed era del re, che diceva:

«Io sperava che gli accusati di congiura contro la mia persona fossero innocenti; ma con dolore ho inteso che il procurator generale abbia dimandato per tutti pene assai gravi. E forse vera la colpa, ed io volendo conservarmi un raggio di speranza della loro innocenza, prevengo il voto del tribunale, fo grazia agli accusati, e comando che al giungere di questo foglio si sciolga il giudizio e si facciano liberi quei miseri. E poichè trattasi d’insensato delitto contro di me, e non ancora è data la sentenza, io non offendo le leggi dello stato se, non inteso il consiglio di grazia, fo uso del maggiore e migliore diritto della sovranità. Gioacchino.»

Fu lieto il fine di quel giudizio quanto miserevole l’altro caso che narrerò. Era in Acerenza, città della Basilicata, un tal Rocco Sileo, bello e grande della persona ma per vecchiezza curvo e bianco, padre di figli e figliuole, con poca fortuna ed onesta fama.