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buto la situazione è relativamente semplice: basti ripetere che l’accentuato polimorfismo del denaro d’argento, dovuto in Francia e Germania al fiorire delle zecche signorili, nell’Italia centro-settentrionale non esistette, dato che essa rimase sostanzialmente fedele, per ripetere la formulazione di Pierre Toubert, ai quadri tecnici e istituzionali della moneta publica di tradizione carolingia, con le sue poche zecche di tradizione regia e imperiale1. Come si vedrà, fino all’irruzione del denaro del Poitou e ai successivi indebolimenti dei denari battuti dalle zecche di Pavia e di Milano, in Piemonte le monete circolanti al livello degli scambi testimoniati dalle carte notarili furono soltanto quelle coniate nelle due città appena menzionate. Questo non significa che non si sentisse il bisogno di standard monetari di riferimento e quindi che le menzioni di una determinata moneta non potessero rimandare, oltre e più che ai denari sonanti provenienti da una certa officina monetaria, anche al numerario prodotto dalla stessa officina in quanto misura di valore2. Chi sa in che modo venivano effettuati i grossi pagamenti? Doveva certo trattarsi di operazioni lunghe nel corso delle quali, se venivano effettuate in sola moneta, non è improbabile che si ricorresse anche alla pesatura delle specie, che potevano non essere del tutto omogenee tra loro. Inutile moltiplicare le ipotesi. D’altra parte, pur essendo le fonti scritte in genere avare di informazioni, alcuni fatti risaltano con sufficiente evidenza: nel terzo paragrafo di questo contributo si vedrà come le menzioni di moneta etichettata nelle carte della prima metà dell’XI secolo novarese costituiscano chiara testimonianza non solo del disallineamento dei denari battuti dalle due zecche di Pavia e Milano3, già altrimenti noto, ma anche, dato l’alternarsi delle indicazioni di provenienza, del fatto che a livello locale non fosse ancora stato individuato uno stabile standard monetario. Va aggiunto che in genere quest’ultimo, data la sua funzione, tende a fissarsi sulla moneta più debole tra quelle concorrenti: l’abbassamento del valore (la diminuzione del contenuto di fino) della moneta che funge da standard reca con sé un raffinamento delle sue potenzialità di strumento di misura del valore, come avevano compreso gli esperti della moneta già nei secoli passati4. Per questa ragione il carattere di misura

  1. Cfr. sopra, nota 3.
  2. Cfr. del resto Spufford, Money and its use cit., p. 411. Per la tendenza a interpretare in modo sistematico le attestazioni di moneta etichettata soprattutto come testimonianze relative all’adozione di un certo standard valutario si veda Matzke, Vom Ottolinus zum Grossus cit., p. 137 («So erlaubt die reiche Überlieferung von Immobiliengeschäften in den italienischen Archiven, meist mit Zahlungsangaben in spezifierten Münzsorten, spätestens ab dem 12. Jahrhundert eine recht genaue Umschreibung von Währungsgebieten (nicht Verbreitungsgebieten!) von Münzsorten») e un esempio a p. 147.
  3. Il rapporto tra le due monete è noto per il principio dell’XI secolo: un diploma del 1013 di Enrico II per il monastero di Sant’Abbondio di Como – Die Urkunden Heinrichs II. und Arduins, Hannover 1900-1903 (Monumenta Germaniae Historica, Diplomata regum et imperatorum Germaniae, III), doc. 275, pp. 324 sg. – indica un rapporto di equivalenza di undici lire di denari milanesi con dieci lire di denari pavesi: C. Brühl - C. Violante, Die “Honorantie Civitatis Papie”. Transkription, Edition, Kommentar, Köln-Wien 1983, pp. 52 sg.
  4. Si vedano, per esempio, le osservazioni dell’economista settecentesco Pompeo Neri: essendosi «il grado del valore dinotato sotto il nome di lira (...) col decorso dei tempi sempre diminuito, è

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