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Parte III. Libro III. 203

prima, e poscia ancor da timore, e ch’essa a lui solo era stata dannosa:

Aut timor, aut error: nobis prius obfuit error139
E più chiaramente altrove:
Est mea culpa gravis, sed quæ me perdere solum
Ausa sit, & nullum majus adorsa nefas.
Nec nisi non sapiens possum timidusque vocari:
Hæc duo sunt animi nomina vera mei140.

XXXIV. Ma questa colpa, questo qualunque siasi fallo, qual fu egli mai? Fu certamente l’aver a caso veduto un vergognoso e disonesto delitto:

Inscia quod crimen viderunt lumina, plector,
Peccatumque oculos est habuisse meum141
.
E altrove: 122
Nec breve, nec tutum est, quo sint mea dicere casu
Lumina funesti conscia facta mali142
.

Anzi in altro luogo con una similitudine, che arreca, sembra che accenni meno oscuramente il delitto, ch’egli vide, e per la vista del quale egli fu esiliato:

Cur aliquid vidi, cur noxia lumina feci?
Cur imprudenti cognita culpa mihi est?
Inscius Actæon vidit sine veste Dianam:
Præda fuit canibus non minus ille suis143
.

Di questo delitto però da lui veduto ei tenne un alto segreto, e non confidollo pure al più intrinseco amico, ch’egli avesse, come scrive a lui stesso, aggiugnendo, che forse, se glielo avesse affidato, ei non avrebbe incorso lo sdegno di Augusto: Cuique ego narrabam secreti quidquid habebam, Excepto quod me perdidit, unus eras. Id quoque si scisses, salvo fruerere sodali144 . Anzi nell’Elegie da lui scritte dal suo esilio, e in quella ancora scritta ad Augusto, mostra di aver sempre altissimo orrore a rammentar l’oggetto, ch’ei vide, e a rinnovare il dolore, che n’ebbe Augusto: