Pagina:Storia della letteratura italiana - Tomo I.djvu/417

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XIII. Della Biblioteca da Pollione eretta nell’Atrio della Libertà, e di quella di Augusto nell’Atrio di Apolline fa menzione anche Ovidio, allor quando con leggiadrissima fantasia introduce a favellare il suo libro56, che da lui mandato a Roma entra timoroso in Città, e va intorno cercando, chi per pietà lo raccolga, e così parla a coloro, che in lui s’incontrano:

Dicite Lectores, si non grave, qua sit eundum,
Quasque petam sedes hospes in Urbe liber.

Quindi finge, che uno mosso da compassione prenda a condurlo per le diverse vie di Roma, e fralle altre al tempio di Apolline e alla prossima Biblioteca sul colle Palatino. Esso vi entra, ed esaminando que’ libri vi cerca i suoi fratelli, cioè gli altri libri da Ovidio composti, trattine quelli, che il comune lor Padre non vorrebbe aver mai pubblicati. Ma mentre ne cerca, il troppo severo Bibliotecario gli viene innanzi, e gli comanda di uscirne tosto:

Inde timore pari gradibus sublimia celsis
 Ducor ad intonsi candida templa Dei;
Signa peregrinis ubi sunt alterna columnis,
 Belides, & stricto barbarus ense pater;
Quæque viri docto veteres fecere novique
 Pectore, lecturis inspicienda patent.
Quærebam fratres, exceptis scilicet illis,
 Quos suus optaret non genuisse pater.
Quærentem frustra custos e sedibus illis
 Præpositus sancto jussit abire loco.

Il libro infelice così bruscamente cacciato si volge all’altra Biblioteca, la prima pubblica, dice, che fosse aperta in Roma nell’Atrio della Libertà; ma questo luogo, aggiugne, alla Libertà consecrato non era luogo per me; né la Dea permise pure, ch’io mi ci accostassi. In tal maniera, egli dice, i figliuoli portan la pena della colpa del padre loro. E finalmente conchiude pregando, che, poiché le pubbliche Biblioteche per lui son chiuse, gli sia lecito almeno ricoverarsi nelle private: