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parlare italico è illustre, in quanto si scosta dagli elementi locali, ove prendono forma i dialetti, e si accosta alla maestà e gravità del latino, la lingua modello. Voleva egli far del volgare quello che era il latino, non la lingua delle persone popolari, ma la lingua perpetua e incorruttibile degli uomini colti. Sogno assai simile a quello di una lingua universale, fondata co’ procedimenti artificiali della scienza. Scegliere il medio di qua e di là e far cosa una e perfetta, sembra cosa facile e assai conforme alla logica, ma è contro natura. Le lingue, come le nazioni, vanno all’unità per processi lenti e storici; e non per fusioni preconcette, ma per graduale assorbimento e conquista degli elementi inferiori. Il ghibellino che dispreggiava i dialetti comunali e voleva un parlare comune italico, di cui abbozzava l’immagine, ti rivelava già lo scrittore della Monarchia.
Il trattato, de Monarchia, è diviso in tre libri. Nel primo dimostra la perfetta forma di governo essere monarchia: nel secondo prova questa perfezione essere incarnata nell’impero romano, sospeso, non cessato, perchè preordinato da Dio. Nel terzo stabilisce le relazioni tra l’impero e il sacerdozio, l’unico imperatore e l’unico papa.
L’eccellenza della monarchia è fondata sull’unità di Dio. Uno Dio, uno Imperatore. Le oligarchie e le democrazie sono polizie oblique, governi per accidente, reggimenti difettivi. Fin qui tutti erano d’accordo, guelfi e ghibellini. Non ci erano due filosofie; le premesse erano comuni ai due partiti.
E tutti e due ammettevano la distinzione tra lo spirito e il corpo e la preminenza di quello, base della filosofia cristiana. E ne inferivano che nella società sono due poteri, lo spirituale e il temporale, il Papa e l’Imperatore. Il contrasto era tutto nelle conseguenze.
Se lo spirito è superiore al corpo, dunque, conchiu-