Pagina:Storia della letteratura italiana I.djvu/334

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E tu di’ vero, diceva Alimena,
Lascial posare e non gli dar più pena.

Manca il rilievo: per soverchia naturalezza si casca nel triviale e nel volgare. Più tardi verrà il grande artista, che calerà in questo mondo della natura e dell’amore appena sbozzato e pur ora uscito alla luce, e gli darà l’ultima e perfetta forma.

Simile di disegno, ma in più larghe proporzioni, è il Ninfale d’Ameto. È il trionfo della natura e dell’amore sulla barbarie de’ tempi primitivi. E il barbaro qui non è la Ninfa, sacrata a Diana, che per violenza di natura rompe il voto, ma è il pastore abitatore della foresta co’ Fauni e le Driadi, che scendendo al piano lascia l’alpina ferità e prende abito civile. Il luogo della scena comincia in Fiesole, negli antichissimi tempi detta Corito, quando vi abitavano le Ninfe e non era venuto ancora Atalante a cacciarle via e introdurvi costumi umani. Così l’Ameto si collega col Ninfale Fiesolano. Il pastore Ameto erra e caccia su pel monte e per la selva, quando un dì affaticato giunge co’ suoi cani al piano, presso il Mugnone, e riposando e trastullandosi co’ cani, gli giunge all’orecchio un dolce canto, e guidato dalla melodia scopre più giovanette intorno alla bellissima Lia. Sono Ninfe, non sacrate a Diana, ma a Venere. Lia racconta nella sua canzone la storia di Narciso; bellissimo e crudo cacciatore, che rifiutando il caro amore delle donne, e innamorato della sua immagine fu convertito in fiore. Ameto parte pensoso, recando seco l’immagine di Lia. Venuta la primavera, torna al piano, e cerca e chiama Lia, descrivendo la sua bellezza e offrendole doni:

Tu sei lucente e chiara più che il vetro,
E assai dolce più ch’uva matura,
Nel cuor ti sento, ond’io sempre t’impetro,
E siccome la palma inver l’altura