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col suo coro di dotti e di letterati, il Ficino, il Pico, i fratelli Pulci, il Poliziano, il Rucellai, il Benivieni, e tutti gli accademici. La letteratura vien fuori tra danze e feste e conviti.
Lorenzo non avea la coltura e l’idealità del Poliziano. Avea molto spirito e molta immaginazione, le due qualità della colta borghesia italiana. Era il più fiorentino tra’ fiorentini, non della vecchia stampa s’intende. Cristiano e platonico in astratto e a scuola, in realtà epicureo e indifferente, sotto abito signorile popolano e mercante dai motti arguti e dalle salse facezie, allegro, compagnevole, mezzo tra’ piaceri dello spirito e del corpo, usando a chiesa e nelle bettole, scrivendo laude e strambotti, alternando orgie notturne e disputazioni accademiche, corrotto e corruttore. Era classico di coltura, toscano di genio, invescato in tutte le vivezze e le grazie del dialetto. Maneggiava il dialetto con quella facilità che governava il popolo, lasciatosi menare da chi sapeva comprenderlo e secondarlo nel suo carattere e nelle sue tendenze. Chi comprende l’uomo, è padrone dell’uomo. Portò a grande perfezione la nuova arte dello stato, quale si richiedeva a quella società, divenute le feste e la stessa letteratura mezzi di governo. Alla violenza succedeva la malizia, più efficace: il pugnale del Bandini uccise un principe, non il principato; la corruzione medicea uccise il popolo; o per dire più giusto, Lorenzo non era che lo stesso popolo studiato, compreso e realizzato, l’uno degno dell’altro. Tal popolo, tal principe. Quella corruzione era ancora più pericolosa, perchè si chiamava civiltà, ed era vestita con tutte le grazie e le veneri della coltura.
Il giovine Lorenzo, odorando ancora di scuola, tra il Landino e il Ficino, dantesco, petrarchesco, platonico, con reminiscenze e immagini classiche, entra nella folla de’ rimatori, i quali continuavano il mondo tradizionale
De Sanctis ― Lett. Ital. Vol. I | 25 |