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Pagina:Storia della letteratura italiana I.djvu/41

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     Che fer per la finestra della torre
     E ciò che dentro trova, spezza e fende.
Rimagno come statua di ottono,
     Ove spirto, nè vita non ricorre,
     Se non che la figura d’uomo rende.

Queste non sono certo le insipide sottigliezze di Jacopo da Lentino. Ci si vede l’uomo d’ingegno e la mente che pensa. Ma non è linguaggio d’innamorato questo sottilizzare e fantasticare sul suo amore e sul suo stato.

Immensa fu l’impressione che produsse questa poesia di Guido, se vogliamo giudicarla da quella che ne ebbe Dante, che lo imitò tante volte, che lo chiamò padre suo, che la magnifica terza strofa scelse a materia della sua Canzone sulla Nobiltà, che ebbe la stessa scuola poetica, che nota la celebrità a cui venne l’uno e l’altro Guido1 e aggiunge:

E forse è nato
Chi l’uno e l’altro caccerà di nido.


Guido oscurò tutt’i trovatori e salì a gran fama presso un pubblico avido di scienza, e pieno d’immaginazione, di cui Guido era il ritratto, un pubblico uscito dalle scuole, per il quale poesia era sapienza e filosofia, verità adorna, e che non pregiava i versi, se non come velame della dottrina.

Mirate la dottrina che s’asconde
Sotto il velame delli versi strani.

Tal poeta, tal pubblico. E si andò così formando una scuola poetica, il cui Codice è il Convito di Dante.

Se Bologna si gloriava del suo Guido, Arezzo avea il suo Guittone, Todi il suo Jacopone e Firenze il suo Brunetto Latini.

  1. Guido Guinicelli e Guido Cavalcanti.