riore. Alfieri aveva il sentimento di quel vuoto, e quella sua vita puramente esteriore era per lui noia mal dissimulata sotto il mondano rumore. Coloro che questa vita esteriore debbono conquistarsela col sudore della fronte possono nel loro travaglio trovare un certo lenitivo di quella noia. Ma natura e fortuna aveano data ad Alfieri tutta fatta quella vita; i suoi padri aveano lavorato per lui. Nato non a lavorare, ma a godere, le sue forze interne poderosissime, soprattutto quella tenace energia di carattere, atta a vincere ogni resistenza, rimanevano inoperose, perchè tutto piegava innanzi a lui, tutto gli era facile. Corse parecchie volte tutta Europa; e non vi trovò altro piacere che il correre, simulacro dell’interna irrequietezza non soddisfatta. Questo è ciò che dicesi dissipazione, una vita senza scopo e a caso, dove fra tanto moto rimangono immobili le due forze proprie dell’uomo, il pensiero e l’affetto. Se Alfieri fosse stato un cavallo, quel suo correre l’avrebbe contentato, come contenta moltissimi, che pur si chiamano uomini. Ma si sentiva uomo, e stava tristo e annoiato, e non sapeva perchè. Il perchè era questo, che nato gagliardissimo di pensiero e di affetto, non aveva trovato ancora un centro, intorno a cui raccogliere ed esercitare quelle sue facoltà. Una passione si piglia facilmente in quell’ozio, e Alfieri ebbe i suoi amori e i suoi disinganni, e gli parve allora di vivere. Ne’ momenti più feroci della noia si gettò a’ libri. Di latino non intendeva più nulla, e pochissimo d’italiano; parlava francese da dieci anni. Leggendo per passatempo, tutto natura e niente educazione, lo stile classico lo annoiava; Racine lo faceva dormire, e gittò per la finestra un Galateo del Casa, intoppato in quel primo conciossiachè. Si diè a’ romanzi, come i giovanetti alle Mille e una notte. Tutto il suo piacere era di seguire il racconto e vederne la fine, e gli dispiacque l’Ariosto per le sue interruzioni,