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| della rivoluzione di roma | 509 |
frigida Musa, che poi il d’Azeglio. voltò nella italica favella. Riandandovi ora col pensiero, non si può non esser compresi da rossore per entrambi; ma finalmente nè lord Minto rappresentava la nobilissima nazione britannica, nè il d’Azeglio la non men nobile italiana. Presero dei granciporri ambedue, e non furon soli!... Poveri noi, se i fatti isolati di pochi individui tornar dovessero in onta delle rispettive nazioni. Degli altri capi-popolo, o compartecipi di cosiffatte iniquità ci rifugge l’animo di tenere più lungo proposito. Chi si sente la voglia di conoscerne i nomi legga il processo. È cosa avverata però che se vi furon fra i complici alcuni Romani, i capi e gli istigatori principali furono il Carbonelli, il Bomba, il Colonnello, i fratelli Facciotti, l’avvocato Galletti, il Canino, e lo Sterbini, che non erano Romani.
Ritornando al Rossi egli è innegabile che ad onta degli avvisi ricevuti, volle coraggiosamente, o imprudentemente, affrontare il pericolo, fece visita al papa e se ne congedò. Ahimè! fu quella l’ultima volta! Ascende nel legno, si reca a prendere con sè il cavalier Pietro Righetti, ed arriva sulla piazza della Cancelleria circa un’ora dopo il mezzogiorno. Ma qual differenza! Al giungervi dello Sterbini poco prima, applausi immensi![1] All’apparir del Rossi, sibili e fischi! Discende dal cocchio, alcuni ex legionari se gli fanno d’appresso, e formano due ali compatte a piedi della scala: sente percuotersi in una gamba, si volta, ed una mano omicida vibra risolutamente un colpo di pugnale sul suo collo e fende la carotide.[2]
Ferito appena, sente mancarsi. Lo sorregge il Righetti, e fa della sua persona sostegno e riparo allo spirante ministro, immerso nell’angoscia, intriso nel proprio sangue. Quindi è posto sopra una sedia e trasportato negli appartamenti dei Cardinal Gazzoli, assistendolo sempre il Ri-