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della rivoluzione di roma 67

Eseguita la corsa dei cavalli, le vetture tutte che dovevano rientrare nel Corso furon fatte retrocedere. I cocchieri come pecore voltando strada, riconducevano a casa i lor padroni. I venditori di moccoli eran respinti indietro negli sbocchi delle strade, e se recalcitravano, erano sorvegliati e sequestrati nei portoni delle vie adiacenti al Corso. Alcuni incominciavano ad accendere i moccoletti dai balconi: ma ai fischi ed alle minaccie dei sottostanti dovettero desistere.

Insomma chi ridendo, chi imprecando, e chi mordendosi le labbra per la patita violenza che si faceva, stavano tutti come in osservazione: ma i lumi intanto non si accendevano. I civici stessi erano attediati ed avviliti al vedere reso inutile l’oggetto pel quale trovavansi in fazione. Tutte queste cose formavano un contrasto di pensieri, di sentimenti, e di situazione del tutto singolare. Ma intanto l’ora in che dovevasi far cessare la festa era per giungere, la civica riceveva l’ordine di ritirarsi, e i mortari sparavansi affinchè spegnessero quei lumi, che mai non erano stati accesi.

Tutto ciò si tenne per una corbellatura data ai Romani, molti de’ quali privatamente se ne querelavano, ma a che pro, se al caffè delle Belle Arti e in altri ritrovi, unendo lo scherno all’insulto, gridavasi: Bravi Romani, che unione! che obbedienza! che patriottismo? E così finì la festa dei moccoletti.

Potrà sembrare a taluno di esserci noi intertenuti di soverchio sopra tale argomento: se bene si consideri però non è tale avvenimento da passarsene. Diremo anzi che fu un esempio tremendo di quanto possan pochi astuti sopra una popolazione intiera: e se la storia deve rivolgersi ad utilità ed ammaestramento de’ mortali, non sarà che studiando le cose occorse che ci convinceremo con, quanta facilità le moltitudini possono lasciarsi sorprendere ed ingannare e fare dir loro di sì, quando avrebber voluto dire di no; e così chi la leggerà ammaestrato dall’espe-