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Pagina:Storia di Milano II.djvu/17

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col maggiore effetto per la pubblica salvezza. Ma come sperare che si accozzasse un collegio di eroi casualmente, in una città oppressa da una serie di sei pessimi sovrani? Mancava a questo corpo resosi sovrano, e la opinione di chi doveva ubbidire, e la coesione delle parti di lui medesimo; nè era riserbato nemmeno ai più accorti il prevedere la poca solidità e durata di un tal sistema, manifestatamente vacillante. Già nel capitolo antecedente nominai i fautori principali del governo repubblicano, cioè Innocenzo Cotta, Teodoro Bossi, Giorgio Lampugnano, Antonio Trivulzi e Bartolomeo Morone. Non era probabile che le altre città della Lombardia superassero il ribrezzo di farsi suddite di una città metropoli, governata a caso e senza una costituzione politica. In fatti due sole città, cioè Alessandria e Novara si dichiararono di essere fedeli a Milano; le altre o progettarono di voler governarsi a modo di repubblica indipendente, o posero in deliberazione a qual principe sarebbe stato meglio di offerirsi. In Pavia sola vi erano ben sette partiti; gli uni volevano Carlo re di Francia; altri, Luigi il Delfino; altri, il duca di Savoia; altri, Giovanni marchese di Monferrato; altri, Lionello marchese di Ferrara; altri, i Veneziani; altri, il conte di Cremona Francesco Sforza. Il Corio, che ciò racconta, non fa menzione dell’ottavo partito, che sarebbe stato quello di reggersi da sè e collegarsi in una confederazione di città libere; o meglio ancora unirsi in una sola massa e formare un governo comune. Nè ciò pure terminava la serie de’ mali del sistema. I banditi ritornavano alle città loro, occupavano i loro antichi beni, già venduti dal fisco ducale, e ne spogliavano gl’innocenti possessori. La rapina era dilatata per modo, che nessuno