Pagina:Storia di Milano II.djvu/34

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Milanesi, quegli che non si stancava di tenere animata la plebe contro del conte, rammentando i mali sofferti sotto i duchi, le gravezze imposte da’ principi, le violenze esercitate dai cortigiani e favoriti. Ricordava la demolizione del castello di Milano, come un motivo per cui il conte avrebbe esercitata la vendetta su quanti vi ebbero parte; anzi come una cagione di nuovi aggravii, obbligandoci a riedificarlo con dispendio e scorno, ponendoci in bocca il freno, dopo che ci avesse fatti sudare nella fucina a formarlo. Proponeva il conte l’impresa di Brescia, la quale, dopo un tal fatto, era senza difesa, e così ripigliare ai Veneti quella parte del ducato che s’erano presa; ma non lo vollero i capitani e difensori della libertà. Tutte le proposizioni dello Sforza erano contraddette; i soccorsi d’ogni specie ritardati; le militari disposizioni attraversate. Il Piccinino primeggiava. Carlo Gonzaga aveva in Milano un poderoso partito, ed adocchiava il trono. Con Giorgio Lampugnano e Teodoro Bosso, primarii fautori della libertà, si univa Vitaliano Borromeo, signore di somma significazione, perchè, oltre la grandiosa opulenza del casato, possedeva in dominio quasi tutte le fortezze del lago Maggiore. Questi tre rivali partiti si univano contro l’imminente fortuna del conte; il quale, posto in tale condizione, ascoltò le proposizioni della repubblica veneta, e segretamente stipulò un trattato per cui egli si obbligò a restituire, non solamente quel che aveva invaso nel Bresciano e Bergamasco, ma Crema e il suo contado ai Veneziani; e che i Veneziani, in compenso, a fine di ottenere al conte il dominio di tutte le altre città che aveva possedute Filippo Maria, gli avrebbero stipendiati quattromila cavalli e duemila fanti, sborsandogli tredicimila