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488 | libro quarto |
di selve e colline, che lo nascondono agli occhi e lo segregano dal mondo, cinto di nove stagni che formano come una seconda barriera a proibirne l’accesso, erano que’ monaci come tanti cadaveri nel sepolcro, non solamente per non saper più nulla ne de’ parenti, ne degli amici, ne de’ successi del mondo, ma per levarsi ancora da tutte le pratiche della vita sociale con que’ medesimi co’ quali convivono, lavorando, pregando, mangiando insieme, vivendo e morendo senza mai parlarsi, a guisa d’ombre.
In quel luogo, dove ancora vivea l’austero riformatore abbate di Rancé, andò una prima volta nel 1691 per semplice curiosità il conte di Santena, e fu commosso dalla scena che gli si aperse dinanzi, mesta ad un tempo e sublime. Tornò dopo qualche tempo, e trovò esser morto e vide esposto nel coro un monaco chiamato Palemone, stato come lui peccatore, come lui gentiluomo e capitano di genti da guerra, e che ravvedutosi avea dato in quella solitudine frutti mirabili di penitenza. Benchè l’avesse dimesticamente conosciuto nel mondo non poteva già ravvisarlo per quanto gli ficcasse gli occhi bramosi nel volto. Perchè, all’antiche fattezze, le quali erano dure e grosse, erano sottentrati lineamenti che parean d’angelo, ed una soavissima aria di paradiso, sicchè niuno sapea saziarsi di contemplarlo. Il conte di Santena fu preso da insolito turbamento; onde poichè, compiute le esequie, l’ebbe veduto a porre in