solo e chiuso nella sua camera, faceva certe cose di negromanzia. Il che avendo persentito Dionigi, chetamente s’accostò alla fessura che nella camera penetrava; e vidde tutto quello che Lattanzio suo maestro faceva. Laonde, invaghito di tal arte, puose ogni suo pensiero alla nigromanzia, lasciando da canto l’essercizio del sarto; non però osava scoprirsi al maestro. Lattanzio, vedendo Dionigi aver mutata natura, e di diligente e saputo esser venuto pigro ed ignorante, nè più attendere, come prima, al mestero del sarto, diègli licenza, e mandollo a casa di suo padre. Il padre, che poverissimo era, veduto che ebbe il figliuolo, molto si duolse. E poscia che castigato ed ammaestrato l’ebbe, lo ritornò a Lattanzio, pregandolo sommamente che lo dovesse tenere, castigarlo e nodrirlo; nè altro da lui voleva se non che l’imparasse. Lattanzio, che conosceva il padre del gargione esser povero, da capo l’accettò, e ogni giorno gl’insegnava cuscire; ma Dionigi si dimostrava d’addormentato ingegno, e nulla apparava. Per il che Lattanzio ogni giorno con calzi e pugna lo batteva; e il più delle volte li rompeva il viso, e facevagli uscir il sangue: ed insomma più erano le battiture, che i bocconi che egli mangiava. Ma Dionigi ogni cosa pazientemente sofferiva; e la notte alla fessura della camera n’andava, e il tutto vedeva. Vedendo Lattanzio il gargione esser tondo di cervello, nè poter apparare cosa che li fosse mostrata, non si curava più di far la sua arte nascosamente, imaginandosi che, s’egli non poteva apparar quella del sarto, che era agevole, molto minormente appararebbe quella di nigromanzia, che era malagevole. E però Lattanzio non si schifava più da lui, ma ogni cosa in sua presenzia faceva. Il che era di molto contento a Dionigi; il quale, quantunque fosse giudicato tondo e gros-