Pagina:Straparola - Le piacevoli notti II.djvu/253

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desiderò dimandar licenza di partirsi e ritornare nella patria sua; e ingenocchiatosi al conspetto di sua beatitudine, ottenne la licenza. E tanta fu l’ingratitudine di esso pontefice, che non solamente non gli diede danari, cavalli e famigli; ma fu constretto, ch’è il peggio, a render ragione di quanto aveva maniggiato, come fece quel Scipione Africano, il qual puose ragione in publico al popol romano delle sue ferite, veggendosi rimunerar di essilio per lo premio di suoi gran fatti. E nel vero bene si dice che niun maggior male ha la cupidità, quanto che gli è ingrata. Così adunque partendosi da Roma e andando verso Napoli, mai pur una parola non gli cascò dalla bocca, se non che, passando per certa acqua che era pel viaggio, s’intratenne il cavallo per esserli venuta volontà di stalare; e stalò ivi, aggiungendo acqua all’acqua. E ciò veggendo Gierolomo: Ben ti veggio, disse egli, simele di mio patrone, il quale, facendo ogni cosa senza misura, mi ha lasciato venir a casa senza remunerazione alcuna, ed hammi dato licenzia per premio della mia lunga fatica. E che cosa è più misera di colui, al qual cascano e periscono e’ benefici, e s’accostano l’ingiurie? Il famiglio che lo seguitava, ripose queste parole nella memoria, e giudicò che il detto Gierolomo superasse Muzio, Pompeio e Zenone di pazienza; e così andando, arrivarono a Napoli. Il famiglio, presa licenza e ritornando a Roma, narrò ogni cosa a punto per punto al pontefice. Il quale, poi che ebbe considerato queste parole, fece ritornar il corriere indietro, scrivendo al detto Gierolomo che, sotto pena di scomunica, dovesse venir alla presenzia sua. Le quali lettere lette, esso Gierolomo s’allegrò, e più presto che puote, ne andò a Roma; e dopo il bascio del piè, il pontefice gli comandò che il giorno seguente, all’ora di consiglio, doppo