miglior messe dietro la luce di queste vecchie dottrine, anzi che dalle novelle di chi si avvisò d’insegnare le arti belle con dettami non dissimili a quelli, che sono usati a scuola di scienze e di mestieri. Se questa, che si nomina filosofia delle arti, chiami a sindacato i più celebrati in ciascheduna, niuno abbia speranza di andare assolto. Omero, Catullo, Dante, Raffaele non torneranno pienamente lodati. Quello fa dire a Crise parole disconvenevoli al debito amor della patria, questi in carme introduce episodio più lungo del proposto argomento, e fa il contenuto maggiore del continente; l’altro confonde la storia con la favola, il sacro col profano; un quarto pone Papa Clemente spettatore nel Tempio di Gerusalemme; l’arte si risente, quando la ragione è offesa. Sì veramente, ma non quella della pittura, e della poesia, delle quali accade il giudizio. Omero dipinge l’indole umana quale la scopre in effetto. Natura pose in cima di tutti l’affetto a’ figli. Crise pensoso della figlia, non cura di regie ambizioni da saziare, di onte da vendicare nel sangue, di popoli innocenti e inconsapevoli. Egli Troiano dice al Greco re de’ re: Rendete a me la mia figlia, e prendetevi Troia, che io ve l’auguro. Era questo il più possente di tutti gli scongiuri. Se nostra natura non è più sublime, se umana veramente non divina, la colpa non è del poeta. Catullo lascia ire la fantasia dove più largo si apre il campo a belle imagini, e a caldi affetti; e se pare scordevole dell’argomento, non ne duole al lettore, che non altro brama, che di essere dilettato. Dante si giova di mitologici velami, entro i quali è facile discernere il falso, che fa più risplendere il vero. Raffaele