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ARGO E IL SUO PADRONE


I

l dottore m’aveva esiliato lassú: Dovevo restare per un anno intero nell’alta montagna movendomi quando il tempo lo concedeva e riposare quando lo imponeva. Idea geniale che però non mi fu utile. Il movimento che l’estate aveva concesso abbondantemente non m’aveva fatto bene ed il riposo impostomi dalle prime bufere e che dapprima mi parve gradevole, fu subito eccessivo, noioso, snervante. Poi la noia mi spinse ad un’avventura con una donna del rude paese. Finí — come si vedrà — male, e alla noia s’associò un rancore per tutto il paese che doveva servirmi di medicina.

La vecchia Anna, la mia sola compagnia nella casetta riparata da una rupe, essa sí, faceva la cura intera. Talvolta dimenticava di fare il mio letto. Io la guardavo con invidia e non sapevo arrabbiarmi. Quando fingevo di perdere la pazienza essa s’indignava: «Non ho che due braccia!» gridava, e queste due braccia piccole e grassoccie andavano solo ora in attività per alzarsi al cielo in segno di protesta.

Io me ne andavo rallegrato di vedere che il riposo — per lei almeno — non era poi una cosa tanto cattiva.

Nella mia stanza da letto leggevo il giornale da capo a fondo compresi gli avvisi. Interrompevo spesso la noiosa lettura per consumare del combustibile nella stufa di ferro che tenevo sempre rossa. “Ora basterà!” mi dicevo sentendo che la temperatura era calda abbastanza, e, invece, poco dopo, abbisognando di movimento, mi davo di nuovo da fare col carbone, cosí che poi m’era imposta, (grazie al cielo!) una nuova attività: Quella di aprire la finestra eppoi, presto, di rinchiuderla quando l’aria afosa della stanza era tutta uscita a scaldare la montagna, e vi era stata sostituita di colpo da tanta umidità fredda, da obbligarmi ad un’accelerata attività intorno alla stufa. Veramente geniale l’idea di quel dottore!

Il mio cane da caccia, Argo, mi guardava con curiosità e