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Carla ebbe un impeto di affetto che mi seccò abbastanza, ma che sopportai valorosamente. Poi mi raccontò ch’essa non avrebbe mai abbandonato il canto. Cantava tutto il giorno, ma a modo suo. Voleva anzi farmi sentire subito una sua canzone. Ma io non ne volli sapere e alquanto villanamente corsi via. Perciò penso che anche quella notte essa abbia meditato il suicidio, ma io non le lasciai mai il tempo di dirmelo.

Ritornai dal Copler perchè dovevo portare ad Augusta le ultime notizie dell’ammalato per farle credere che io avessi passate con lui tutte quelle ore. Il Copler era morto da due ore circa, subito dopo ch’io me n’ero andato. Accompagnato dal vecchio pensionato che aveva continuato a misurare col suo passo il piccolo corridoio, entrai nella stanza mortuaria. Il cadavere, già vestito, giaceva sul nudo materazzo del letto. Teneva nelle mani il crocifisso. A bassa voce il pensionato mi raccontò che tutte le formalità erano state compiute e che una nipote dell’estinto sarebbe venuta a passare la notte presso il cadavere.

Così avrei potuto andarmene sapendo che al mio povero amico si dava tutto quel poco che ancora poteva occorrergli, ma restai per qualche minuto a guardarlo. Avrei amato di sentirmi sgorgare dagli occhi una lacrima sincera di compianto per il poverino che tanto aveva lottato con la malattia fino a tentar di trovare un accordo con essa. — E’ doloroso! — dissi. La malattia per la quale esistevano tanti farmachi, l’aveva brutalmente ucciso. Pareva un’irrisione. Ma la mia lacrima mancò. La faccia emaciata del Copler non era mai apparsa tanto forte come nella rigidezza della morte. Pa-

SVEVO — La coscienza di Zeno — 18