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temevo. Egli s’era seduto sulla poltrona accanto alla finestra e guardava traverso i vetri, nella notte chiara, il cielo tutto stellato. La sua respirazione era sempre affannosa, ma non sembrava ch’egli ne soffrisse assorto com’era a guardare in alto. Forse a causa della respirazione, pareva che la sua testa facesse dei cenni di consenso.

Pensai con spavento: «Ecco ch’egli si dedica ai problemi che sempre evitò». Cercai di scoprire il punto esatto del cielo ch’egli fissava. Egli guardava, sempre eretto sul busto, con lo sforzo di chi spia traverso un pertugio situato troppo in alto. Mi parve guardasse le Pleiadi. Forse in tutta la sua vita egli non aveva guardato sì a lungo tanto lontano. Improvvisamente si volse a me, sempre restando eretto sul busto:

— Guarda! Guarda! — mi disse con un aspetto severo di ammonizione. Tornò subito a fissare il cielo e indi si volse di nuovo a me:

— Hai visto? Hai visto?

Tentò di ritornare alle stelle, ma non potè: si abbandonò esausto sullo schenale della poltrona e quando io gli domandai che cosa avesse voluto mostrarmi, egli non m’intese nè ricordò di aver visto e di aver voluto ch’io vedessi. La parola che aveva tanto cercata per consegnarmela, gli era sfuggita per sempre.

La notte fu lunga ma, debbo confessarlo, non specialmente affaticante per me e per l’infermiere. Lasciavamo fare all’ammalato quello che voleva, ed egli camminava per la stanza nel suo strano costume, inconsapevole del tutto di attendere la morte. Una volta tentò di uscire sul corridoio ove faceva tanto freddo. Io glielo impedii ed egli m’obbedì subito. Un’altra volta, invece, l’infermiere