Pagina:Svevo - Senilità, 1927.djvu/114

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sò con dolore: — Se l’avessi posseduta non soffrirei tanto. — Se egli avesse voluto, voluto energicamente sarebbe stata sua. Invece era stato solo intento a mettere in quella relazione un’idealità che aveva finito col renderlo ridicolo anche ai propri occhi.

S’alzò da quel muricciuolo più quieto ma più affranto di quando vi si era seduto. Tutta la colpa era sua. Era lui l’individuo strano, l’ammalato, non Angiolina. E questa conclusione avvilente lo accompagnò fino a casa.

Dopo di aver atteso ancora una volta per esaminare una donna che aveva la figura di Angiolina, ebbe l’energia di chiudere dietro di sè la porta di casa. Era finita per quella sera. Il caso, in cui egli fino ad allora aveva sperato, non poteva più avverarsi colà.

Accese la candela, lento nei movimenti per ritardare quanto più poteva il momento in cui si sarebbe trovato sdraiato in quel letto senz’aver più nulla a fare e senza poter dormire.

Gli parve che nella stanza di Amalia si parlasse. Da prima credette fosse un’allucinazione. Non erano grida eccitate; parevano delle calme parole di conversazione. Socchiuse con prudenza la porta della stanza e non ebbe più dubbi. Amalia parlava con qualcuno: — Sì, sì, è proprio quello ch’io voglio — aveva detto con voce chiarissima e calma.

Egli corse a prendere la candela e ritornò. Amalia era sola. Sognava. Giaceva supina, uno dei bracci esili denudato piegato sotto il capo, l’altro steso sulla