Pagina:Svevo - Senilità, 1927.djvu/187

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gnava andare a cercare quella stanza. Non v’era dubbio! Era stato diretto da Angiolina.

Vi andò subito. La proprietaria della camera si chiamava Paracci, ed era una vecchierella nauseante dalle vesti sucide sotto alle quali s’indovinavano le forme del petto abbondante, un resto di giovinezza in mezzo ad una vizza vecchiaia, la testa con pochi capelli ricci sotto ai quali luceva la pelle porosa e rossa. Lo accolse con grande gentilezza e, subito d’accordo, gli disse ch’ella non affittava che a chi conosceva molto bene dunque a lui sì.

Egli volle vedere la stanza e vi entrò, seguito dalla vecchia, per la porta sulle scale. Un’altra porta — sempre chiusa — disse la Paracci con l’accento di chi giura, la congiungeva al resto del quartiere. Più che ammobiliata, era ingombrata da un enorme letto dall’apparenza pulita e da due grandi armadi; c’era un tavolo nel mezzo, un sofà e quattro sedie. Non ci sarebbe stato posto neppure per un solo altro mobile.

La vedova Paracci stava a guardarlo, le mani sui grossi fianchi sporgenti, con l’aspetto sorridente — una brutta smorfia che metteva in mostra la bocca sdentata — di chi si attende una parola di soddisfazione. Infatti nella stanza c’era anche qualche tentativo d’abbellimento. In capo al letto stava piantato un ombrello chinese e sulla parete, anche qui, erano appese varie fotografie.

Gli sfuggì un grido di sorpresa vedendo accanto alla fotografia di una donna seminuda, quella di una