Pagina:Svevo - Una vita, 1938.djvu/70

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faccia anemica e magra di Gustavo brillava la salute, la pace. 

Eppure non si sentiva infelice! Trovava la sua felicità da una parte nello studio accanito stesso, dall’altra nella sua ambizione cresciuta gigante, la fame di gloria. Sentiva di essere superiore agli altri e se ancora non sapeva come si sarebbe guadagnata questa gloria, lo afforzava nelle sue speranze il suo amore allo studio ch’era divenuto passione. Completava le ore di studio alla biblioteca con altrettante in casa e non gli bastava ancora. Lo studio invadeva le ore di ufficio, del pranzo e della cena e andava rubandogli ogni giorno parecchie ore di sonno. 

In un’epoca di maggiore attività propose a Lucia di darle delle lezioni di lingua italiana. Non doveva essere disaggradevole d’imparare insegnando. 

La proposta fece andare in visibilio i vecchi Lanucci e il padre volle che anche Gustavo partecipasse a quelle lezioni. Persino costui s’infiammò. Volle dimostrare una grande diligenza. Si fece dettare da Alfonso le definizioni delle parti del discorso e intendeva di studiarle a mente perché per mancanza di preparazione e non d’intelligenza non giungeva a comprenderle. Poi non si fece piú vedere e soltanto le due prime volte si rammentò di scusarsi, quelle però con tutta buona grazia e sempre asserendo che la prima lezione lo aveva grandemente divertito. 

La signora Lanucci formalmente consegnò Lucia ad Alfonso. Le prime lezioni vennero date in tinello, le altre in stanza di Alfonso, perché in tinello a certe ore non vi era quiete bastante. 

Alfonso prese il suo compito sul serio e l’entusiasmo della signora Lanucci finí col far credere anche a lui di usare un benefizio a Lucia dandole i suoi insegnamenti. 

Avevano principiato col Puoti, ma ben presto mutarono programma, ambedue mortalmente annoiati. Lucia non aveva capito niente e Alfonso lo sapeva. 

Da parecchio tempo Alfonso usava di leggere i sinonimi del Tommaseo. Risolse di far studiare a Lucia quelli in luogo della grammatica.