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167 ATTO VANNUCCI - DISCORSO SU TACITO

dei mortali credevano ad una cieca fatalità, egli inchinò a credere alla libertà morale che nobilita l’uomo. Perciò quantunque narrasse sempre le superstizioni del volgo e ricordasse i presagii che erano conseguenza necessaria del fatalismo, e talora mostrasse di prestarvi credenza, altre volte disse chiaro che nell’arte divinatoria non aveva fidanza, e manifestamente dubito dei prodigii affermando che non furono creduti se non dopo il fatto. Fra le dottrine filosofiche si accostò a quella degli stoici che salvavano la dignità dell’umana natura e inalzavano gli oppressi sopra i tiranni insegnando a disprezzare il dolore e la morte. Perciò fu grande ammiratore di Elvidio Prisco e di Trasea, e ne celebrò con affetto le lodi. Ma non accettò le dottrine stoiche fino alle ultime conseguenze: e credè che nella pratica della vita vi fosse una via mezzana e lecita tra la turpe arrendevolezza e l’ardire imprudente. Severo nei suoi eiudizi politici, era umanissimo nella vita privata. Si dilettò di esercizi innocenti e di scherzi, e cercò ricreamento al suo animo coltivando le muse. Nel secolo quinto, al riferire del grammatico Fulgenzio Planciade, esisteva una raccolta di Facezie composte da Tacito. La perdita di esse ne duole, perchè ci avrebbero mostrato sotto un nuovo aspetto quest’uomo singolarissimo. Sarebbe stato bello ascoltare i motti piacevoli del fiero narratore delle crudeltà di Tiberio.

Della semplicità dei costumi di lui ne abbiamo testimonianza nel carteggio di Plinio. Vedemmo come erano amici fino dalla giovanezza, e come poi si strinsero viepiù nell’amore della virtù, del pubblico bene, della libertà, della gloria. Di Tacito non ci pervenne lettera alcuna: ne rimangono dieci di Plinio a lui, che parlano di onesti diletti, di faccende, di studi e sono un