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LIBRO QUINTO 235

tra Agrippina e Nerone. Credettesi mandatagli già, ma ritenuta da Augusta; poi che non prima morta, fu letta. Eranvi parole asprissime: non arme, non voglia di novità; ma amori di giovani rinfacciava al nipote e disonestà. Questa alla nuora non osò apporre; ma testa alta e superbo animo. Il senato allibbì. Poscia alcuni di quelli che non isperando nelle vie buone, entrarono in grazia per nuocere al pubblico, domandarono che la causa si proponesse; e Cotta Messalino accivito iscoccò sua sentenza atroce: gli altri principali, e massimamente i magistrati, tremavano, perchè la lettera era adirosa, ma nulla conchiudeva.

IV. Giunio Rustico, gran-cancelliere del senato fatto da Cesare, perciò creduto sapere i suoi pensieri, non so per quale spirazione (non avendo prima dato saggio di forte, o fosse per sacciutezza temendo il male futuro, e non il presente) si frammesse, e i consoli dubitanti confortò a non la proporre; allegando, in poco d’ora il mondo voltarsi, e doversi dare al vecchio spazio al pentirsi. Il popol di fuori, con l’immagini d’Agrippina e di Nerone, accerchiò il senato, e ben’augurando a Cesare, gridava: „Quella lettera esser falsa; non volere il principe che si rovini casa sua;„ onde niuno male quel giorno si fe’. Sentenze andavano attorno, sotto nomi di consolari, contro a Seiano; sfogandosi mascherati (tanto più mordaci) gl’ingegni; onde gli cresceva ira e materia d’accuse: il senato disprezza il dolore del principe; il popolo è ribellato: odonsi e leggonsi nuove dicerie de’ Padri, che altro resta loro che prendere il ferro, e quei far capi e imperadori, le cui immagini si portano per bandiere?