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LIBRO SECONDO | 87 |
ciocchè trescasse, e dicesse il giovane, il quale ricercò un certo Giunio di far per incanti venir diavoli. Costui lo disse a Fulcinio Trione, che spia pubblica era, e se ne pregiava. Tosto pone la querela: pretesta a’ consoli che il senato la vegga; chiamansi a furia i Padri per gran caso atroce.
XXIX. Libone in vesta lorda accompagnato da nobili donne picchia gli usci de’ parenti, pregali che lo difendano. Tutti, per non s’intrigare, si ristringono nelle spalle con varie scuse. Egli cascante di dolóre e paura, o fintosi malato, come alcun vuole, il dì del senato v’andò in lettiga, e alla porta, retto dal fratello, con mani e voce chiedeva a Tiberio mercè; il quale non gli fe’ viso chiaro, nè brusco: lesse i peccati; nè leva, nè poni.
XXX. E i nomi di Trione e Cato accusanti, ai quali s’aggiunsero Fonteio Agrippa e C. Livio; e contrastando chi fare dovesse la diceria distesa, e niuno cedendo, e trovandosi Libone senza avvocato, Livio prese a trattare d’un peccato per volta. Lesse, come Libone aveva fatto gettar l’arte; se egli avrebbe mai tanti danari che coprissero la Via Àppia fino a Brindesi, e cotali scempiezze e vanità, da increscer buonamente di lui. Una scrittura vi fu con postille atroci o scure, a nomi de’ Cesari, o senatori, di mano (dicea l’accusatore) di Libone. Negando egli, parve di farle riconoscere dagli schiavi; e non potendosi per legge antica martoriarli contro alla vita del padrone; Tiberio, dottor sottile, fece venderli al fattor pubblico1; e così salvata la legge furon col-
- ↑ Actor publicus, si può intendere il cancelliere che scriveva gli atti; e il fiscale, che maneggiava le facoltà. Questa