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fosca | 139 |
non uscivamo che sull’imbrunire. Il moto della vettura conciliava sì bene il sonno al colonnello, ed egli era sì felice di sapere che v’era lì io per conversare con sua cugina, che non aveva posto piede sulla predella che era già addormentato. Fosca sembrava trovare maggior piacere in quelle strette di mano e in quei baci che mi dava di sotterfugio in quei momenti. Quella era per lei l’ora più felice della giornata: il sapere che suo cugino era lì, che io avrei osato dir nulla, oppormi a nulla, rendeva la sua arditezza ancora più tormentosa. Le sue imprudenze erano in quei momenti senza numero.
In quanto a me non v’erano istanti più tristi di quelli. Le strade che percorrevamo erano quasi tutte strade di campagna, strette, solitarie, aperte in mezzo ai vigneti ed ai prati. Era il principio dell’autunno; i grilli, le locuste, le piccole rane delle siepi riempivano l’aria d’una musica piena di dolcezza e di melanconia. Il cielo era quasi sempre sereno e stellato, l’aria impregnata di profumi. In quei momenti avrei voluto pensare a Clara, raccogliermi e dimenticarmi in quel pensiero, ma non era possibile. Fosca mi richiamava inesorabilmente alla realtà della mia situazione.
Ma a che scopo ricordare le angosce di quei giorni? Furono tali dolori che non si possono nè immaginare, nè dire, nè forse sopportare senza soccombervi. La prova che io ho subita fu breve, ed è a ciò soltanto che ho dovuto la mia salvezza. Venti giorni dopo la convalescenza di Fosca, io non aveva già più nè salute, nè coraggio, nè speranza di sopravvivere e quella sciagura.