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XXXVIII.



Dodici giorni dopo io aveva già lasciato il letto, ma il medico mi aveva prescritto un riposo continuo. Non uscivo più di casa, e Fosca veniva a vedermi ogni giorno. Aveva cominciato allora a nevicare, le giornate erano brevi e malinconiche, io passava le mie ore al caminetto, leggendo, fantasticando, rattizzando il fuoco, guardando i passeri posarsi tutti arruffati sulle gronde dei tetti, pensando a quell'inverno che aveva trascorso un anno prima nella mia patria, simile in tutto a questo, se non era che ora almeno viveva sotto il martello di un gran dolore.

I momenti che passava con Fosca erano i più tristi di quelle mie giornate. Le sue contraddizioni non erano mai state sì frequenti e sì estreme, la mutabilità del suo carattere, se pure non era la sua malattia che la rendeva sì variabile, non si era mai rivelata sì pienamente come in quei giorni. Passava da un abbandono di dolore ad un abbandono di gioia, da un eccesso di pietà ad un eccesso di egoismo, repentinamente, senza causa, senza pensare e senza avvedersi del male che mi faceva. Ora che eravamo liberi, soli, sicuri di noi, quegli incontri potevano essere assai più pericolosi. L'amore di Fosca non conosceva più alcun ritegno, alcun limite. La sua virtù avrebbe avuto la forza di imporgliene? Era la domanda che io mi volgeva spesso rabbrividendo.

Perché, soltanto la mia freddezza, la mia avversione, la mia ripugnanza invincibile, inconcepibile, estrema, avevano avuto fino allora il potere di conservarci puri. Fosca aveva compreso la tacita eloquenza di quel con-