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con tristezza la sedia su cui si è seduta, e guardo gli ultimi tizzi del focolare che si spengono. Non l’ho amata mai tanto come oggi. Oh! che sarebbe di me senza quella donna!»


XLIV.


L'indomani era la vigilia di Natale: avevo detto a Fosca che per quel giorno sarei ritornato, e tenni la promessa. Un biglietto del dottore che trovai nella mia stanza mi diceva:

«So che ella vi aspetta a pranzo qui. Se vi verrete (e non farete male a venirvi) direte al colonnello e agli altri che non siete ancora partito, che una lieve indisposizione vi ha obbligato a rimanere. Io sarò là a farne fede. Immagino che non avrete paura di aggravare la vostra coscienza con questa menzogna inevitabile».

Vi andai. Tanto non avrei potuto evitare di veder Fosca, e il minor male che mi fosse possibile sperare era appunto quello di non vederci da soli. La certezza della mia traslocazione imminente mi infondeva una specie di coraggio che non aveva avuto prima. Per poco non era divenuto anche audace. Affrontava questi pericoli con calma, perché sapeva che erano gli ultimi. La mia apparizione non produsse alcuna sorpresa nei miei commensali, giacché il dottore ne li aveva prevenuti. Il colonnello mi strinse la mano fino a farmi sentire un po’ troppo la pressione delle sue dita secche e nervose, e mi disse con schiettezza:

— Sono veramente contento che non siate ancora partito; me ne dispiace per voi, ma per me ne sono lieto. È una puerilità, un’abitudine come le altre, lo ca-